UN FILM PER COMBATTERE LE DISCRIMINAZIONI
INTERVISTA A RENATO GIUGLIANO
di Andrea Liuzzi

CEFA da anni si impegna nella lotta alla discriminazione per favorire una migliore inclusione sociale anche in Italia. All’interno di questo perimetro, abbiamo parlato con Renato Giugliano, regista del film La Guerra a Cuba. Il film, prodotto da RLP Film Productions in collaborazione con CEFA e Overseas onlus, è una riflessione sulla necessità di parlare ed essere ascoltati, senza lasciare indietro nessuno. Negli ultimi mesi Renato ha presentato la sua pellicola a numerosi festival cinematografici riscontrando un enorme successo sia da parte del pubblico che della critica. Reggio Calabria Film Festival e Caorle Film Festival, sono solo alcune delle kermesse italiane che hanno premiato la pellicola fino ad arrivare oltreoceano in Arkansas all’interno del Little Rock Italian Film Festival.
Parlando con Renato abbiamo ripercorso la sua avventura insieme a CEFA sottolineando l’importante sodalizio fra il mondo delle arti visive e quello della cooperazione internazionale. Affrontando questi temi e facendoci raccontare il suo ultimo film, abbiamo capito come la solitudine possa portare l’uomo a compiere gesti rancorosi. Da qui una riflessione sull’impegno delle organizzazioni non governative: attori che devono continuare a lavorare in sinergia con il mondo audio-visivo per continuare a diffondere il proprio messaggio e la propria missione, senza lasciare mai nessuno indietro.
Quando è nata la collaborazione con CEFA?
Nel 2009 il CEFA voleva cambiare la modalità di raccontare i propri progetti. I progetti di cooperazione per anni sono stati raccontati con un linguaggio e un’impostazione prettamente istituzionali. CEFA ha avuto una visione molto moderna: ha deciso di usare l’audio visivo per cominciare a narrare e coinvolgere nei propri progetti. CEFA si è rivolto alla cineteca di Bologna che ha fatto il mio nome per partire e andare in Albania dove realizzammo due film, di cui uno, Cooperanti, fu distribuito in sala. Da ONG bolognese CEFA si ritrova così, anche grazie all’integrazione del racconto-video, a presentare i propri progetti in tutto il mondo.
La Guerra a Cuba racconta di intolleranza, cinismo e fake news. Cosa rende questi temi attuali?
Intolleranza, cinismo e fake news sono degli evergreen. Ci sono sempre stati. Fanno a loro modo parte della natura umana. Le fake news sono state recentemente codificate associandole ai social media. Però le informazioni reali sono da sempre state travisate. Il primo esempio storico è l’esempio del yellow journalism che cercava di mettere le persone una contro l’altra. Oggi assistiamo allo stesso fenomeno sui social.
Come riescono i personaggi del film ad affrontarli?
I personaggi subiscono. Le fake news proliferano e generano i loro effetti. Non vengono contrastate più di tanto, almeno all’interno del film. Soltanto alla fine i personaggi prendono coscienza, non tanto della manipolazione ma dei fatti. Il loro modo di reagire è cercare la strada dell’unione, stare insieme e perdonare quello che è stato.
Ma la strada dell’unione si trova quando il danno ormai è stato fatto?
La cosa amara delle fake news è infatti che o troviamo il modo di intercettarle oppure è soltanto dopo che come comunità andremo a scoprirle.
Cosa può spingere ‘uno di noi’ a sparare sulla folla? Può davvero una persona comune diventare espressione di una banalità del male capace di portarla a compiere un gesto tanto tragico e violento?
Cosa spinge una persona? La rabbia più estrema. La solitudine interiore, emotiva, psicologica. Un uomo talmente solo da non avere più niente. Qui in Italia il primo esempio che mi viene in mente è quello di Luca Traina, che per noi sono quelle circostanze incredibili. In altri paesi come negli Stati Uniti c’è invece una storia molto più lunga di eventi simili.
E qual è la causa scatenante che porta una persona a sentirsi così?
La parola è Solitudine. Il film parla del bisogno che abbiamo di essere ascoltati. Tutti i personaggi hanno una cosa in comune: vogliono essere ascoltati. Sono elementi che possono portare i più deboli e fragili a compiere gesti tragici. Non c’è un equazione ma penso che le cause scatenanti siano quelle. L’incapacità di vedere una via di uscita.
Come possono le arti in generale riuscire a combattere la disinformazione?
Le arti servono ad espandere la visione e la percezione che abbiamo di noi stessi e della realtà. Le arti aumentano la sensibilità e abbattono i pregiudizi. Le arti mettono in gioco le persone. Quando uno inizia a fare cinema, teatro sviluppa un senso del bello e di comparazione.
Quali sono i mezzi di comunicazione di cui un ONG dovrebbe usufruire?
Cinema, fotografia, fumetto, si possono usare tutte le arti. Un ONG con la capacità di usare mezzi di comunicazione moderni riesce ad arrivare dove altri non riescono.
Credi che il partenariato tra il mondo delle arti e ONG impegnate in attività di sensibilizzazione sociale possa costituire un esempio virtuoso per combattere la disinformazione?
Il partenariato con l’audiovisivo è necessario. Oggi è tutto molto più immediato attraverso l’audiovisivo: pochi secondi di video possono trasmettere molto più di un intero report di 50 pagine. Dovrebbe essere una prassi di tutti: dalle scuole alle università. Sto lavorando attivamente in tal senso proponendo progetti di alfabetizzazione informatica che puntano sull’audiovisivo.








