Memorie di un’alluvione: un anno di ricostruzione e solidarietà
Quando un’anomala quantità di pioggia ha provocato l’esondazione di 23 fiumi in tutta l’Emilia Romagna, causando la morte di 15 persone, Forlì è stata una delle città maggiormente colpite e come CEFA abbiamo deciso di esserci, insieme a voi, per sostenere il quartiere Romiti, che ancora oggi a un anno di distanza porta con sé le ferite di quei giorni.
Siamo in via Firenze, a Forlì. Vanni ci accompagna tra le stanze della casa in cui è nato e in cui vive dal 1951. La casa dista cinquanta passi dal fiume Montone. I piani rialzati, i garage e le cantine furono completamente travolti dall’acqua e da tutto ciò che essa portava con sé. Oggi il fango non c’è più, ma i suoi segni sono rimasti indelebili.

Conosco bene questo fiume, ci sono cresciuto, ci giocavo e facevo il bagno ogni pomeriggio quando ero un bambino. L’acqua era pulita sessanta anni fa. Dopo quel 3 maggio, la protezione civile ci ha fornito dieci sacchi di sabbia a testa. Sono subito andato a comprarne altri quaranta da posizionare davanti a casa. Abbiamo così passato tutto il giorno a sistemare i sacchi, senza pensare a spostare le auto, a svuotare il garage o gli appartamenti al piano terra.
L’allarme è arrivato solo dopo. Quando è arrivata l’ondata non ci abbiamo creduto. Forse non ci crediamo nemmeno ora. Ci ha inondato 140 cm del seminterrato, le scale e tutto il piano rialzato. Il fiume quella notte circondò la casa, portando con sé taniche, pettini, imbuti, pale da pizza. Di tutto, insomma. L’odore di liquame e chimico era fortissimo.

L’ondata ruppe poi tutte le finestre del seminterrato e scardinò il portone di ferro del garage. Abbiamo perso un sacco di ricordi: il giradischi, il mio primo treno elettrico, tutti i mobili della mia mamma dell’appartamento che avevamo fatto mettere a posto lo scorso anno. Il giorno successivo, abbiamo visto la vera solidarietà, soprattutto dei giovani. Tutti si sono dati da fare. Fermavo i ragazzi che passavano per strada “Cosa fai cerchi lavoro?” chiedevo scherzando. E loro si fermavano. Piano piano, erano in due, poi in quattro, poi in dieci, e infine la domenica c’erano 40 persone che ci davano una mano. Tantissima gente pronta a dare una mano.

I primi quindici giorni sono stati da film. I ragazzi hanno poi visto le bottiglie di vino: “non mi direte che vi piace il vino?” gli ho chiesto. Ammetto che ci siamo divertiti. Il grigio è arrivato dopo, insieme allo sconforto, quando il grosso lo avevamo tolto ma siamo poi rimasti soli.


Nonostante tutte le difficoltà, non dimenticheremo la grande solidarietà vissuta, la vicinanza della parrocchia e del comitato di quartiere. Venivano di casa in casa la sera a chiedere chi avesse bisogno della cena. Contavano in quanti eravamo e poi tornavano 20 minuti dopo con un piatto caldo per tutti.
Abbiamo visto la vera gioia con cui le persone hanno donato la propria opera.

Da via Firenze, ci spostiamo “nella bassa”, la zona del quartiere Romiti sotto il livello del fiume. Qui incontriamo Elisa che ci racconta che quando quel giorno ha iniziato a piovere, si aspettavano solo pochi centimetri d’acqua.
Nel pomeriggio abbiamo messo i sacchi di sabbia davanti a casa e ci siamo messi ad aspettare. Quando si è rotto l’argine, il piano terra si è riempito immediatamente. Pensavamo e speravamo si fermasse lì. L’acqua è salita, arrivando poi fino qui al primo piano. Siamo saliti in mansarda, e quando l’acqua era molto irruente i vigili del fuoco non riuscivano più a passare. Io ho un marito, due bimbi e avevo un cane. Erano le due di notte e l’acqua continuava a salire. Ci stavamo preparando ad andare sul tetto.


I vigili del fuoco provarono poi a scendere con l’elicottero, ma il vento era troppo forte. Dall’alto ci dissero di non avere paura, che non ci avrebbero abbandonato. Così è stato perché poi alle cinque e mezza sono venuti a prenderci. Sfondarono la porta, perché l’acqua faceva resistenza, e arrivarono con il gommone fino qui al primo piano. Siamo andati via, mentre qui c’era il fiume. Siamo passati sopra le cime degli alberi. Da dentro, non riuscivamo ad avere una vera percezione di quello che nel frattempo stava accadendo.
Poi c’è stato il dopo. Per tre giorni non siamo riusciti a tornare per capire se la casa fosse ancora lì. È iniziata poi tutta una macchina di ragazzi arrivati da tutta Italia. Quei ragazzi che cantando tra il fango ci aiutavano a buttare via tutta la nostra vita.
La mia fortuna è stata mia figlia, di sei anni, che è voluta ritornare subito per lavorare nel fango insieme a loro. In ogni momento di sconforto mi diceva “mamma non ti preoccupare per la casa, tanto la facciamo più bella”. Il fiume mi ha tolto, ma mi ha fatto conoscere tante belle persone, mi ha fatto rendere conto di essere parte di una comunità.

Al quinto giorno, viene un ragazzo “ti posso dare una mano?” mi chiede. Non sapevo cosa dire. E lui, giovanissimo, arrivato da Milano, mi dice “al momento ti abbraccio, poi mi dirai cosa posso fare”.
Quello che ora facciamo fatica a raccontare è la paura che torna ogni volta che fa due gocce d’acqua. Secondo me non si può più parlare di normalità. C’è una nuova quotidianità, ma non torneremo mai alla normalità. Ci siamo adattati a quanto è accaduto. È una quotidianità fatta dalla consapevolezza che se cadi c’è qualcuno, e comunque sia si può andare avanti.
